consulenza artistica,
aiuto regia e organizzazione Isabella Rotolo
disegno luci Fabio Giommarelli
progetto sonoro Giovanni
Ghezzi
suoni Hubert
Westkemper
musiche
originali Camera
scene Francesco Givone
Assistenti alla scenografia Matilde Gori, Alessia
Castellano
Maschere di Martina
Boik, Anca Dragomir, Chiara Manetti, Noemi Perna, Ilenia Purrazzo, Athena Sangemini
costumi Labàrt Design
foto e
grafica Manuela Giusto
coproduzione Teatro del Carretto,
Leviedelfool e Teatro della Tosse
con il sostegno di Officine Papage, Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt) e Teatro di Buti
Ai vaganti di notte, ai posseduti da Dioniso, alle menadi, agli iniziati.
C’è un Luogo che è quello del mito e della tragedia; questo Luogo c’è ma è difficile da raggiungere, un po’ come cercare il Luogo del Dionisiaco in una metropoli.
Se questo luogo esiste, allora esiste anche un tempo, difficile da afferrare da quel treno in corsa che oggi
il Tempo stesso è divenuto.
Nonostante queste difficoltà, il Mito continua a vivere con la sua virtù di delineare tutto quanto se stesso in un presente vitale, pregno di voci ancestrali di oracoli e riti
del passato. Il mito continua a vivere e la Tragedia è ancora la sua più efficace espressione.
Ogni notte nel cielo compaiono i racconti disegnati dalle stelle ad anni luce di distanza ed ecco che il tempo
del mito prende piede.
Una panchina dislocata in quel poco che rimane della natura in città diventa allora il luogo giusto per osservare quelle storie luminose, un cielo pieno di significati in un
racconto silenzioso e vivo, come la notte.
Soltanto un albero a frapporsi tra la panchina e il cielo. Un albero immenso i cui rami non attraversano solo la terra, ma anche l’universo e le costellazioni. Su di un ramo, le maschere appese in ricordo di un’antica festa che celebrava l’invenzione del vino e l’arrivo di Dioniso.
Maschere come fantasmi sprigionati dal vino, in attesa che la tragedia inizi.
Poi finalmente Dioniso arriva, come sempre, falso e seducente e solo allora la tragedia può iniziare.
INCIDENZA DEL REALE
Una notte incontrai Jonas, seduto su una panchina di legno. Un gitano. Un ex artista del circo. Un funambolo. Uno di quelli che ancora oggi leggono le costellazioni nel cielo. Quella notte su quella panchina Jonas mi ha raccontò Le Baccanti così come le raccontava a sua figlia. Mi narrò i grandi miti, ma lo fece col dito puntato verso le stelle. Ne dedussi che cercare di afferrare tutti quei nomi e quei significati fosse, per noi comuni mortali, un po’ come camminare su un filo d’acciaio sospeso in mezzo all’infinito: la possibilità imminente, statistica, di cadere giù oppure di rimanere sospesi. Deve essere questa la sensazione di chi decide di attraversare la zona del mito. Il mio incontro con Jonas, quella notte, è stato l’incontro con Dioniso.
La mattina dopo, da alcune persone al bar difronte al parco, sono venuto a sapere che Jonas era morto. Mi sono chiesto se fossi stati l’ultima persona che la quale avesse parlato. Così ho deciso di dedicargli uno spettacolo.
IL MITO, LA TRAGEDIA E LE STELLE
Si entra nel mito quando si entra nel rischio, e il mito è l’incanto che in quel momento riusciamo a far agire in noi. Più che una credenza, è un vincolo magico che ci stringe. È una fattura che l’anima applica a se stessa. Bello infatti è questo rischio, e occorre con il mito in un certo modo incantare se stessi.
Nei miti greci molto era implicito, molto di quel che per noi oggi è perduto. Quando guardiamo il cielo notturno, la prima impressione è di stupore dinanzi a un ammasso stocastico, disperso su un fondo oscuro e ci sembra precluso percepire un ordine, e tanto più un movimento dentro quell’ordine, là dove ci viene incontro una fusciacca bianca sfrangiata, la Via Lattea. E subito pensiamo alle distanze, agli inconcepibili anni luce. Abbiamo perso la capacità di situare i miti nel cielo. Eppure, ridotti alla loro scorza frangiante di storie, i miti continuano ad apparirci.
Il gesto mitico è un’onda che, nell’infrangersi, disegna un profilo, come i dadi gettati formano un numero. Ma ritirandosi accresce nella risacca la complicazione indomita, e alla fine la commistione, il disordine, da cui nasce un ulteriore gesto mitico. Le figure del mito vivono così molte vite e molte morti, ma in ciascuna di queste vite e di queste morti sono compresenti tutte le altre, e risuonano. Possiamo dire di aver varcato la soglia del mito soltanto quando avvertiamo un’improvvisa coerenza fra incompatibili.
Il mito rivendica a sé vittime. Dal sacrificio, insieme al sangue, sgorgano le storie. Così affiorano i personaggi della tragedia.